Domanda di suicidio assistito
Attualmente, alcuni – non molti in realtà – fanno testamento biologico, sia pure privo di valore legale, secondo formulari che sono riconducibili a due tipi o modelli. Il primo è composto da un formulario dove si domanda al medico che, in condizioni invalidanti e irreversibili, sospenda ogni cura o terapia. In questa direzione si muovono diverse associazioni che invitano a sottoscrivere una serie di dichiarazioni da convalidare presso un notaio. Tra queste, «nel caso di malattia o lesione cerebrale irreversibile e invalidante», si chiede al medico «di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico, né a idratazione e alimentazione forzate e artificiali nel caso sia impossibile alimentarsi autonomamente». È facile riconoscere che una richiesta del genere equivale a una domanda di eutanasia (suicidio assistito).
Il secondo tipo è radicalmente diverso. Con questo, la persona anticipa disposizioni di grande valore, quali il rifiuto di cure mediche sproporzionate, eccessive, inutili al paziente; il rifiuto dell’eutanasia attiva e omissiva; il ricorso alle cure palliative; il desiderio di avere la presenza dei familiari, l’assistenza religiosa, se credente, e altro ancora. Inoltre, offre al medico un adeguato orientamento, lo aiuta – senza sostituirsi o imporsi a lui – nella decisione da prendere; libera i familiari da un infondato senso di colpa di cui potrebbero affliggersi per non avere fatto quanto era tecnicamente possibile fare. Questo tipo di testamento integra con sapienza il valore della vita e la dignità del morire umano.
Nutrire non vuol dire curare
In breve, c’è una forma di testamento biologico che apre all’eutanasia sia pure in forma mascherata, e un’altra, invece, che rifiuta chiaramente sia l’eutanasia sia l’accanimento terapeutico, come due modi che disumanizzano il morire umano. Il criterio che discrimina nettamente il primo dal secondo tipo di testamento biologico è la distinzione reale tra cure proporzionate, da un lato, e cure sproporzionate dall’altro.
Il pensiero cattolico, unitamente a un largo e condiviso pensiero giuridico e medico, con solida argomentazione sostiene che l’alimentazione e l’idratazione artificiali non richiedono l’impiego di sofisticati sistemi tecnologici e, dunque, non costituiscono mezzi straordinari, ma del tutto ordinari; sono a portata di mano anche di strutture ospedaliere povere, praticabili anche a livello familiare. Sono quindi – in linea di principio – obbligatori; sospenderli equivale a procurare la morte.
Anzi, sostiene che «il nutrire si differenzia dal curare», e rientra così nei mezzi di sostegno vitale, quindi questi non sono propriamente atti medici, ma sostegni vitali, tanto che ometterli significa procurare la morte.
Casi estremi ripropongono l’esigenza di una legge sul testamento biologico. Si pensi al caso Terri Schiavo (2005), a quello di Piergiorgio Welby (2006), e a quello attuale di Eluana Englaro, da diversi anni in coma persistente. Il problema non può essere rimosso. La società e, per essa, lo Stato, deve intervenire anche perché non si avallino, per altre vie, decisioni arbitrarie.
In realtà, la legge che si attende dal Parlamento è molto più impegnativa e tale da salvaguardare un triplice ordine di valori in gioco. Il primo riguarda il rispetto al paziente, con il «riconoscere valore legale a dichiarazioni inequivocabili rese in forma certa ed esplicita» e non, quindi, da supposizioni più o meno fondate. Al riguardo, si afferma che l’idratazione e l’alimentazione artificiali non sono terapie, ma sostegni vitali e, quindi, le dichiarazioni non possono escluderle. Il secondo riguarda il ruolo del medico che non può essere ridotto a semplice esecutore, ma è chiamato a «vagliare i singoli casi concreti e decidere in scienza e coscienza».
In altre parole, le dichiarazioni hanno valore orientativo (e non costrittivo), nella consapevolezza che solo nel rapporto fiduciario medico-paziente e familiari si può trovare, nel caso concreto, la soluzione giusta per il paziente.
Il terzo valore si riferisce al sistema sanitario, chiamato a garantire all’ammalato il diritto alla cura, così che il rifiuto dell’accanimento terapeutico non si trasformi in abbandono terapeutico, cosa che accadrebbe con la sospensione delle cure ordinarie, proporzionate, tra cui idratazione e alimentazione artificiali. Oltre al no all’accanimento terapeutico e all’eutanasia, i vescovi aprono su un orizzonte di valori umani che possono guidare i cattolici, in dialogo con le persone di buona volontà, all’elaborazione di una legge giusta a servizio della dignità del vivere e del morire umano.
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