Lo slogan “meglio morire” è una trappola da cui la società non ne esce indenne.

Non mi sento degna di parlare della sofferenza che angoscia quanti sono affetti da malattie che non perdonano e sono consapevoli di essere vicino alla morte. Vivo il più profondo rispetto per questi uomini, donne e bambini, che sperimentano le più atroci sofferenze e provo dolore e imbarazzo però per quella parte di società, che altera, deforma, il momento più solenne del percorso umano: la morte.

Viviamo ormai in una collettività che sta smarrendo la via, e si sta ostinando a camminare nella direzione sbagliata. Un società relativista e materialista che distorce ogni valore e distorce la visuale del mondo, della vita, della morte.

Progredire nella mente dell’uomo di oggi avrebbe dovuto significare migliorare le condizioni di vita materiale, forse in parte ci si è riusciti, ma si è peggiorati in quelle spirituali. In questo tipo di vita non c’è spazio per la sofferenza, perché la sofferenza è perdita della dignità dell’essere umano. E’ questa l’idea che ormai si è insinuata nella mente di molti uomini del terzo millennio.

E come stupirsi allora se le giovani generazioni, davanti a questa errata concezione della vita, che mette al primo posto dei principi educativi stereotipi dell’efficienza, della prestanza fisica, del successo, dell’affermazione del sé, arrivino ad essere consenzienti ad una cultura di morte.

Un tempo si parlava di “eutanasia”, poi si è cominciato a parlare di “suicidio assistito”, oggi si parla di “diritto a morire”, domani di “dovere a morire” per non essere di peso alla società e alla famiglia.

Il termine eutanasia, viene usato da Francis Bacon – filosofo e saggista inglese – nel saggio Of the Proficience and Advanncement of Learning del 1605, in questo saggio a differenza di quanto credono molti, Bacon spronava i medici ad avere una cura speciale per i malati inguaribili, li invitava a farsi carico della loro sofferenza, riducendola il più possibile, li invitava a non abbandonarli a se stessi, dunque a non farli sentire soli e disperati al punto da desiderare la morte. In poche parole incitava i medici ad aiutare i malati nell’andare incontro alla morte serenamente, seguendo il corso naturale della malattia. La “buona morte” - secondo l’etimologia greca -, oggi diventa il perfetto contrario: omicidio, suicidio assistito. Atteggiamenti che sicuramente “fanno rivoltare” nella tomba Bacon, Ippocrate e tutti i pensatori antichi che mai hanno concepito l’eutanasia in questi termini.

Invece di propugnare idee di morte mascherate di carità e compassione, perché invece non si parla di quanto poco si fa per regalare agli ammalati affetto, spiritualità, coraggio, aiuto a riconciliarsi con la vita (negli ultimi istanti).

A che serve ad un malato che si sente schiacciato dal dolore, che ha paura, che è disorientato, un medico che lo imbottisce solo di trattamenti e una società che lo fa sentire indegno di vivere e inefficiente? In cosa lo aiuta un medico che non sappia ascoltarlo, tranquillizzarlo, alleggerirne la sofferenza? La parola cura etimologicamente viene da cuore, curare quindi vuol dire prendersi cura, prendersi a cuore.Questo modo autentico di vivere la professione medica farebbe bene a lui, migliorando la sua professionalità e arricchendo la sua umanità, e al paziente, aiutandolo, sostenendo e spesso salvandogli la vita.

Concludo con un po’ di amarezza rivolgendomi proprio a coloro che sono seminatori di quelle idee di morte spicciola intrinseca di pietà, perché facciano attenzione, stanno ragionando e giocando con cose più grandi di loro. La vita la morte sono concetti da “maneggiare con cura”. Lo slogan “meglio morire” è una trappola da cui la società tutta intera non ne esce indenne.

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